lunes, 31 de mayo de 2021

In quale anno è nato Gesù? E quando è stato crocifisso? (No, non aveva 33 anni) - Gian Guido Vecchi

 

In quale anno è nato Gesù? E quando è stato crocifisso? (No, non aveva 33 anni)

Chi ipotizza di celebrare il bimillenario della morte di Cristo nel 2033 compie, con ogni probabilità, un errore: ecco cosa pensano oggi gli storici sull’anno di nascita di Gesù, e a quale età sarebbe stato crocifisso

In quale anno è nato Gesù? E quando è stato crocifisso? (No, non aveva 33 anni)Il “Cristo morto “ di Andrea Mantegna, Pinacoteca di Brera, Milano
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CITTÀ DEL VATICANO — Di recente ne ha parlato il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi. Qualche tempo prima ne aveva accennato anche Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio. Già si comincia a pensare al modo di celebrare il «bimillenario della morte di Cristo» nel «2033». Ma nessuno sembra sospettare che, in realtà, si arriverebbe con tre anni di ritardo. Certo la sostanza non cambia.

Però lo sa la Chiesa, lo sanno gli studiosi: Gesù non fu crocifisso nell’anno 33 e, quando morì, non aveva trentatré anni.

Le discussioni non mancano, ma la data considerata più probabile è venerdì 7 aprile dell’anno 30. Con buona pace della tombola («gli anni di Cristo!») e delle simbologie legate al numero 33, a quanto pare Gesù, quando morì, di anni ne aveva 36. Tutto dipende dal fatto che quindici secoli fa, quando si definì l’ «era cristiana», si è sbagliato a calcolare la data della nascita e, di conseguenza, quella della morte. Cominciamo dal principio.

Gesù, nato «avanti Cristo»

I quattro Vangeli non indicano né la data di nascita né la data di morte di Gesù. Ma sappiamo che Erode il Grande, re di Giudea, muore nel 4 avanti Cristo. Quindi Gesù non può essere nato più tardi. Suonerà strano, ma il Cristo è nato «avanti» se stesso, o almeno il se stesso del calendario. Perché, a seguire il racconto di Matteo (2,16), quando Gesù nasce Erode è ancora vivo: ed è lui che, dopo aver saputo dai Magi della nascita di quel bimbo che chiamano «re dei Giudei», ordina di uccidere tutti i bambini «da due anni in giù», segno che il bimbo non era appena nato. C’è da considerare anche il periodo tra la fuga in Egitto di Maria e Giuseppe con il bimbo e il ritorno, quando nel racconto evangelico un angelo appare in sogno a Giuseppe e gli dice di rientrare nella terra d’Israele «perché sono morti quelli che cercavano di uccidere il bambino», cioè Erode.

A complicare la faccenda, e a far ballare un altro anno, c’è da dire che l’ «anno 0» dell’era cristiana non esiste: per quanto oggi ci possa sembrare assurdo, il calcolo passa direttamente dall’1 avanti Cristo all’1 dopo Cristo. E questo perché, quando il monaco Dionigi il Piccolo definì a Roma all’inizio del VI secolo la datazione «Anno Domini», non esisteva ancora il concetto di zero, che in Occidente viene trasmesso solo nel 1202 dal Liber abbaci del grande matematico pisano Leonardo Fibonacci: la parola «zero» è la versione toscana del latino zephirum con il quale Fibonacci aveva reso l’arabo sifr, diffondendo in Europa la numerazione indo-araba che usiamo oggi grazie soprattutto all’opera del matematico persiano Muhammad ibn Musa al Khwarizmi, vissuto tra l’VIII e il IX secolo dopo Cristo.

A farla breve, insomma, la gran parte degli studiosi colloca la nascita di Yehoshua ben Yosef, Yeshùa nella forma abbreviata, intorno agli anni 6-7 avanti Cristo.

Come è nato l’errore?

Del resto, che ci sia stato uno sbaglio non è un mistero e la Chiesa ne è consapevole. Ne parlò pubblicamente San Giovanni Paolo II durante un’udienza generale del mercoledì, il 14 gennaio 1987: «Per quanto riguarda la data precisa della nascita di Gesù, i pareri degli esperti non sono concordi. Si ammette comunemente che il monaco Dionigi il Piccolo, quando nell’anno 533 propose di calcolare gli anni non dalla fondazione di Roma, ma dalla nascita di Gesù Cristo, sia caduto in errore. Fino a qualche tempo fa si riteneva che si trattasse di uno sbaglio di circa quattro anni, ma la questione è tutt’altro che risolta». In effetti, molti studiosi propendono per sei.

Ma com’è possibile che si sia sbagliato? Il monaco Dionigi il Piccolo era un grande erudito ma a quanto pare si ingannò nel tradurre dal greco un passo fondamentale di Luca, l’indicazione cronologica più precisa dei Vangeli, all’inizio del capitolo 3: «Nel quindicesimo anno di governo di Tiberio Cesare», Giovanni comincia a battezzare nel Giordano. Gesù lo raggiunge, viene battezzato e comincia il suo ministero pubblico, si legge nel versetto 23, quando archómenos hosèi etôn triákonta, aveva «circa» (hosèi) trent’anni. Dionigi tradusse come se fossero trent’anni o quasi trent’anni, secondo le interpretazioni, e in base alla cronologia romana di Tiberio calcolò come data di nascita il 25 dicembre del 753 dalla fondazione di Roma, fissando come anno 1 dell’era cristiana il 754, un gioco da ragazzi. Ma sbagliato: in greco l’espressione «osei eton triakonta» indica un trentenne, non trent’anni precisi: e infatti, calcolano gli studiosi, Giovanni Battista inizia a battezzare nella regione del Giordano tra la fine dell’anno 27 e l’inizio del 28, e a quel tempo Gesù avrebbe avuto trentatré o trentaquattro anni.

E così si arriva all’errore nell’immaginare la data della morte. Seguendo la cronologia del Vangelo di Giovanni, che appare più corretta, Gesù e i discepoli si riuniscono per l’Ultima Cena la sera del giovedì, dopo il tramonto e quindi all’inizio del 14 di Nisan, il giorno di preparazione della Pasqua nel rituale ebraico. Il calendario ebraico calcola il ciclo lunare e la data della Pesach non è in un giorno fisso della settimana, come la domenica per la Pasqua cristiana. La Pasqua ebraica - che fa memoria di quando Dio «passò oltre» (pasàch, da cui Pesach) le case degli israeliti nella decima piaga dell’Esodo e quindi della liberazione del popolo di Israele dall’Egitto - quell’anno cadeva di sabato.

Considerato che Gesù è morto dopo i trent’anni, le date possibili erano soltanto due, corrispondenti ai due anni intorno al terzo decennio dopo Cristo nei quali Pesach era di sabato: l’anno 30 o il 33. Quando ancora non ci si era accorti dell’errore nel calcolare la nascita, si è pensato che l’anno 30 fosse troppo presto e che quello giusto fosse, appunto, il 33.

Ma se Gesù è nato tra il 6 e il 7 avanti Cristo, il 33 è troppo tardi, sarebbe morto quasi quarantenne. E allora non resta che l’anno 30. Ad essere precisi, per il bimillenario toccherebbe anticipare. A meno di voler mantenere la simbologia, come fece proprio Giovanni Paolo II celebrando solennemente il Giubileo del 2000, anche se sapeva che i duemila anni dalla nascita di Cristo erano in realtà già passati.


https://www.corriere.it/cronache/vaticano-news/21_maggio_30/quale-anno-nato-gesu-quando-stato-crocifisso-no-non-aveva-33-anni-1d3e61b2-bf8e-11eb-b7a1-7e76296b457a.shtml

Referéndum revocatorio … ¿a quién? Opinión | mayo 30, 2021 | 6:18 am. José Gregorio Briceño

 

Referéndum revocatorio … ¿a quién?

Opinión | mayo 30, 2021 | 6:18 am.

La amnesia temporal y selectiva que sufre un montón de venezolanos ya es patológica. A pesar del dolor y sufrimiento del que hemos sido víctimas, no hay forma de comprender cómo es que – con tantas pruebas y evidencias de que el clan heredero del hoy felizmente difunto Hugo Chávez y sus mentores castrocubanos lanzaron a Venezuela por el despeñadero comunista – aún insisten en legitimar cuanto acto o acción ilegítima estos se inventan para seguir invadiendo, saqueando y deshonrando a nuestra tierra y sus riquezas.

El pasado martes vimos a un grupo de actores políticos, encabezados por el ex gobernador Cesar Pérez Vivas y el politólogo Nicmer Evans, en la sede del Consejo Nacional Electoral (CNE) para solicitar la activación del referéndum revocatorio en contra de Nicolás Maduro.

Partiendo del viejo adagio popular que dice que la peor diligencia es la que no se hace, como venezolano en el exilio apoyo todo tipo de acciones que nos pudieran conllevar a una liberación real de nuestra amada patria del holocausto narcocomunista. Observo en los solicitantes todas las buenas intenciones y contundencia en la argumentación si se tratara de una democracia honesta y transparente en las que esas solicitudes son normales y, si se cumplen los requisitos exigidos por la ley, activaría ese derecho consagrado en la Constitución Nacional.

Pero en nuestro caso y al recordar la misma solicitud hecha en el año 2016 en contra del mismo Maduro tenemos ya la respuesta de lo que sucederá una vez más en el caso de activar dicho mecanismo legal.

El artículo 72 de la Constitución Nacional establece que el Referéndum Revocatorio (RR) puede solicitarse al cumplirse la mitad del período del funcionario que intenta revocarse. En el caso de Nicolás Maduro, ¿cuál cargo ocupa legítimamente a quien se busca revocar en este caso?

Luego de 3 años de no reconocerlo como presidente, ¿qué haría la dirigencia opositora y la comunidad internacional? Sería interesante saber cuál es la respuesta de quienes apoyan está tesis.

Otro lado medular del asunto, ya sabemos que las instituciones están secuestradas por el narcorégimen y en el año 2016 el CNE, aún secuestrado, impuso una normativa violando descaradamente la Constitución Nacional para colocarle todo tipo de obstáculos o trabas al referéndum, que por cierto sigue vigente y establece nueve fases o pasos.

Refrescando memorias y sacudiendo esa amnesia recordaré algunas de ellas.

* El RR debe solicitarlo un grupo de electores o autorizar a una organización política. Este paso no se solicitó en el referéndum del año 2004 en contra de Hugo Chávez, en ese entonces inventaron recolectar la firma del uno por ciento de los electores en todos los estados del país para lo que hay que verificar dichas firmas y huellas dactilares, paso que tampoco se solicitó en el referéndum del año 2004.

* Después que se cumpla con lo anterior, se debe solicitar al CNE que active la recolección del 20 % del registro electoral, o sea, sería más de cuatro millones de electores.

* Es importante destacar el gran super invento de la normativa del año 2016 fue que ese 20 % no sea de la población en general, sino de cada uno de los 23 estados. Paso que tampoco se solicitó en el referéndum del año 2004 en contra de Hugo Chávez.

Por todo esto se me ocurre hacer algunas preguntas:

¿Con la tragedia que vive el país de combustible y de todos los servicios será posible contar con la logística para cubrir estos requerimientos? ¿Los narcomalandros no cerrarán las pocas estaciones de combustibles con sus colectivos asesinos? Cuenten con eso. Ya sabemos cómo actúan.

¿Se han calculado o medido esos riesgos? O quizá ¿La nueva directiva del CNE derogará la normativa del año 2016, hoy vigente?

El nuevo presidente del CNE anunció que en el registro electoral se encuentran registrados con derecho al voto 21.070.580 ciudadanos o sea, que de acuerdo a ese registro, los que nos encontramos en el exterior, aproximadamente somos cuatro millones de electores. La gran pregunta a la nueva directiva del CNE ¿se le permitirá a los venezolanos en el exterior ejercer el sagrado derecho del voto establecido en la Constitución para ese supuesto referéndum?

Entre otros aspectos me inquietaría saber si seguirán utilizando el software perverso que da los resultados «irreversibles» siempre favorables a la narcotiranía que maneja el funcionario del Psuv llamado Carlos Quintero. También preguntar qué pasará con la dirección de automatización y las juntas regionales, la trama institucional está intervenida y hay que depurarla.

Señores, mi reflexión insistente desde la cárcel del exilio la que, por más que repita, nunca será suficiente es que no perdamos jamás de vista que estamos en manos de una organización criminal internacional que obedece a los intereses personales de sus jerarcas y al interés geoestratégico narcoterrorista de financiarse con nuestras riquezas, rodear y acercarse cada vez más a invadir silenciosamente a la gran potencia hemisférica de América del Norte. A buen entendedor, pocas palabras.

Mi lucha, mi persistencia y pasión siempre reflejada en la denuncia con lo único que me queda La pluma y la palabra.

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El Mayor Daño - Laureano Márquez

 El Mayor Daño

Laureano Márquez

Quizá el mayor daño que el régimen ha hecho no es la destrucción de la industria petrolera ni la desaparición del oro ni la quiebra de la agricultura y de la industria; no es ni siquiera el condenar al exilio al 10% de la población, la destrucción del sistema educativo y el haber conseguido que Venezuela tenga la inflación más grande del planeta, que la mortandad de cada día sea solo un dato estadístico, que los niños estén muriendo de desnutrición. El mayor daño lo ha hecho en la demolición del alma nacional, de la esperanza ciudadana, de la dignidad de un pueblo. También han sucumbido —en este asalto a la cordura— el sentido común, la bondad, la tolerancia, la compasión y el respeto. El mayor daño ha sido hecho en nuestros corazones, que se han vuelto incrédulos, desconfiados; que solo ven maldad y traición por todas partes. Ya no confiamos en nada ni en nadie; toda opinión que no sea la nuestra nos parece interesada, despreciable, digna de agresión e insulto. Estamos en una torre de Babel de sentimientos. La destrucción es, pues, mucho mayor de lo que parece a primera vista. Ya hay momentos en los que dudamos de que Venezuela tenga salvación. Somos una tierra en la que toda maldad tiene su asiento. Estamos cercanos a eso que Hobbes llamaba el “estado de la naturaleza”, es decir, el estado previo al ordenamiento jurídico, a las leyes morales, a las normas de convivencia que hacen de un hombre un ser humano. Estamos —diría Hobbes— “en un estado que se denomina guerra; una guerra tal que es la de todos contra todos”.

Santo Tomás de Aquino decía que un tirano se apropia no solo de los bienes materiales de su pueblo, sino de sus bienes culturales; suprime los valores porque requiere un pueblo que sea lo menos virtuoso posible y promueve la enemistad entre los ciudadanos apelando al viejo principio de “divide y reinarás”. El tirano “despojado de la razón, se deja arrastrar por el instinto, como la bestia, cuando gobierna”, nos dice el Angélico. De esta manera logra envilecer a los ciudadanos hasta el extremo, porque sabe que así los somete mejor. Sin duda, en Venezuela este instinto ha funcionado a la perfección. Los venezolanos hemos sido envilecidos al extremo.

Cómo haremos para volver a creer en nosotros mismos, para considerarnos un pueblo digno de progreso y bienestar, de libertad y democracia; digno de vivir feliz sin necesidad de huir de su tierra. Es una pregunta que nos atañe y nos concierne a todos. En nuestro horizonte hay demasiada hambre, demasiada sangre, demasiado odio. Necesitamos con urgencia volver a creer en algo: creer que somos posibles, que podemos respetarnos y tolerarnos, que comer es una actividad normal del ser humano, que podemos transitar calles seguras, que los desacuerdos no nos condenan a asesinarnos, que hay esperanza y futuro y que ese futuro puede ser del tamaño del empeño que pongamos en él. No puede ser que una tierra que es capaz de producir tanto talento, tantas individualidades inteligentes y capaces, esté condenada al fracaso como proyecto común. Esta lucha comienza en nosotros mismos. Corazón adentro debemos hacer que Venezuela renazca como una aspiración de fe en nuestro espíritu, comprometida con valores, principios e ideas. La lucha es afuera y es adentro. Volver a creer en nosotros es el primer paso para salir de esto, porque a esa certeza no hay fuerza humana que la someta. Ese día veremos a la tiranía desvanecerse hasta convertirse en un mal recuerdo, como cuando, mirando un viejo retrato de nosotros mismos, caemos en cuenta de lo feos que fuimos alguna vez.

Rector Picón cree que centro de la política debe estar en Caracas y no fuera del país - TAL CUAL 30/5/2021

 https://talcualdigital.com/rector-picon-cree-que-el-centro-de-la-politica-debe-ser-caracas-y-no-fuera-del-pais/

Rector Picón cree que centro de la política debe estar en Caracas y no fuera del país

Roberto-Picon-Cocuyo
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Picón considera que hay «varias maneras» para aquellos partidos interesados en postular candidatos y tengan problemas con las tarjetas


El rector principal del Consejo Nacional Electoral, Roberto Picón, considera que con la elección de unas nuevas autoridades por parte de la Asamblea Nacional -de corte oficialista- se produjo una «ruptura» en el pensamiento de que ese parlamento no está reconocido por un sector de la sociedad. Más bien, a su juicio, la postulación de un grupo de ciudadanos dispuesto a trabajar por el país y en reinstitucionalizar las instituciones ha generado que se produzca una negociación al más alto nivel.

Picón resaltó que están trabajando en el tema de las inhabilitaciones políticas y el tema de los partidos «secuestrados» por parte de la gestión de Nicolás Maduro al decir que las postulaciones a candidaturas se realizarán, según el cronograma electoral, entre el 9 y 29 de agosto. Sin embargo, enfatizó que es un trabajo político «complejo» y que requiere mucha precisión.

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A su juicio, el tema de los partidos se puede resolver «de distintas maneras», ya sea inscribiendo partidos nuevos o usar toldas políticas que ya están para inscribir a sus candidatos interesados en participar. Dijo que no existe condicionamiento alguno por parte del CNE por si alguien quiere retirarse del proceso si no sale algo como lo previeron.

«La única razón para que yo me retire es que pierda la confianza de los grupos sociales que me han postulado y confían en mí. Incluso en las condiciones más adversas en donde las promesas que se han hecho desde el CNE no se llegaran a implementarse exitosamente por cualquier razón me mantendría en pie, dando la lucha desde adentro porque es un rol que hay que jugar», afirmó Roberto Picón en entrevista concedida al diario ABC el 30 de mayo.

Cree que es importante que los sectores que adversan al Ejecutivo aprovechen las rendijas de participación política o de protesta o donde la sociedad pueda estar presente, por lo que subrayó que se debe recuperar el trabajo político en el país teniendo como norte lo interno de Venezuela, sin desmerecer el trabajo que se hace fuera.

«Es fundamental que el centro de la política nacional esté en Caracas, no en Bogotá, Washington, Madrid o Brusela», aclaró.

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Roberto Picón aclaró que se están haciendo contactos con la Unión Europea para que puedan venir a acompañar el proceso electoral del 21 de diciembre, donde se les extenderá una invitación justificando su presencia debido a la coyuntura política que hay en la nación.

A través de su cuenta en Twitter, el rector principal del CNE había expresado el 28 de mayo que en la jornada de actualización del Registro Electoral, que comenzará el 1° de junio, hay ciertas consideraciones a tomar en cuenta como que existe una distribución que privilegia a municipios más pequeños, por lo que el número de máquinas podrá variar considerablemente.

También recomendó que se debe poner atención a las Oficinas Regionales Electorales con el fin de que el proceso «sea ágil e imparcial» porque el CNE estará vigilante de cuántas personas acuden a los puntos de actualización, junto a las peticiones de partidos políticos para ajustar tal distribución.

Hannah Arendt y el Totalitarismo Opinión | mayo 30, 2021 | 6:22 am. Marta De La Vega

 

Hannah Arendt y el Totalitarismo

Opinión | mayo 30, 2021 | 6:22 am.

No es este el espacio para un extenso o profundo análisis, pero sí da la oportunidad de celebrar el pensamiento de una filósofa cuya vigencia mantiene hoy una desgarradora presencia. No solo en regímenes como el de Corea del Norte o de algunos países de África en los que se combinan la voluntad de dominación nihilista con las guerras tribales que han provocado genocidios inimaginables como el de Ruanda, de hutus contra tutsis, en los últimos años del siglo XX. También en el naciente siglo XXI, en nuestro hemisferio, Venezuela sufre un genocidio continuado de baja intensidad, provocado por un proyecto militarista de vocación totalitaria que lanzó a la palestra política el taimado militar barinés, denominado “socialismo bolivariano del siglo XXI”.

Sabemos que su principal propósito fue perpetuarse en el poder con el pretexto de dignificar a los más vulnerables; de construir el control social de la población a punta de dádivas y asistencialismo clientelar; de imponer el control político con represión, expoliación y muerte de quienes considerara, bajo una lógica binaria, enemigos, no adversarios, que es lo propio de las democracias.

El chavismo, almibarando las ilusiones de una mayoría con “cantos de sirena” que facilitaron el extravío de la democracia venezolana, perdió el rumbo trazado después del derrocamiento de la dictadura militar del general M. Pérez Jiménez. Este desvío ha sido una de las peores calamidades de la historia del país, que aún sufrimos, pues se habían construido las bases de la más exitosa modernización del país mediante una “conciliación de élites” con el pacto de Punto Fijo, y en lugar de profundizar la democracia, el proyecto chavista, desde su fundador hasta su designado sucesor, ha convertido en catástrofe permanente la vida nacional.

La retórica de transparencia, la promesa de una gestión administrativa sin opacidad y con rendición de cuentas, ceñida a los parámetros de la más estricta ética republicana, la extensión de los principios democráticos y del progreso a todos los rincones del país fueron un gran engaño para someter de manera hegemónica las instituciones y derrumbarlas, destruir el aparato productivo nacional con la aplicación mecanicista de las recetas que definieron el socialismo real, un fracaso histórico reiterado, siempre inviable, a un altísimo costo social y humano, que en estos días, populistas autoritarios como el candidato presidencial Pedro Castillo en Perú, pretenden implantar.

Tal socialismo ortodoxo, basado en la lucha de clases y la dictadura, no del proletariado sino en contra de estos y de toda la sociedad, con la retórica de la redención social de los más pobres, considerados despojados de su dignidad o desposeídos de riqueza que el caudillo mesiánico llegaba a salvar, desde la antigua Unión Soviética con Lenin y Stalin, quien consolidó el modelo, hasta su tropical y sanguinaria versión cubana con los Castro y sus acólitos, perdura hasta hoy. Como dijo Spengler, refiriéndose a los proyectos fallidos de cambio social revolucionario, “los animales históricos tardan mucho tiempo en morir”.

En Venezuela, además de la destrucción institucional, la militarización del poder, la disolución del Estado, la usurpación de sus estructuras y la simultánea imposición de un Estado delincuencial paralelo, tal “revolución” consistió en despilfarrar la mayor renta petrolera jamás recibida en la historia republicana, mediante fabricación de consensos en el horizonte internacional, compra de voluntades y apoyo utilitario, y en el plano interno, un asistencialismo acomodaticio y manipulador para someter a las mayorías, la dislocación de los más altos valores de civilidad y ética social dentro de un sistema democrático con Estado de derecho y la exacerbación del populismo demagógico hasta la grotesca realidad de convertir la transgresión en norma, presente en todos los sectores económicos, políticos y sociales.

En el poder se mantiene actualmente el conglomerado criminal transnacional que preside Maduro con la camarilla dominante, sin ni siquiera cumplir con uno de los elementos esenciales que definen un Estado, que es la soberanía o control del territorio.

Los trágicos episodios recientes en Apure en la frontera con Colombia, donde jóvenes soldados sin preparación técnica, con una fuerza armada desmoralizada y que ha perdido la brújula, son enviados cual carne de cañón a enfrentar las bandas narcocriminales extranjeras que han tomado posesión del territorio nacional y que están enfrentadas entre facciones rivales por el control de los negocios ilícitos de sus economías pervertidas por la droga como instrumento de dominación. Las “vacunas” y la destrucción de bienes públicos y privados como mecanismos de intimidación y de robo de sus propiedades a poblaciones inermes, en total indefensión por la ausencia de Estado, son una comprobación de que existe en Venezuela un hecho cuya descripción ha sido de los más acertados aportes de Hannah Arendt para definir el totalitarismo.

La “banalidad del mal”, expresión acuñada por Hannah Arendt, encuentra su más remoto antecedente de la modernidad en Kant. Significa, a raíz del seguimiento que hizo Arendt en Jerusalén del juicio a uno de los verdugos más impasibles y anodinos del régimen nazi, Adolf Eichmann, cómo un sistema político puede trivializar el exterminio de seres humanos mediante una ética excluyente de anti-valores morales, mediante su ejecución burocrática por funcionarios que obedecen la orden sin tomar en consideración las consecuencias. Para Arendt, en alusión a Kant, “el mal nunca es radical; solo es extremo y carece de toda profundidad… puede extenderse y reducir todo el mundo a escombros… solo el bien tiene profundidad y puede ser radical”. Ningún ser humano es superfluo. Todos contamos. Esa es la tarea a la que Arendt nos convoca sin postergación.

@martadelavegav