DALLA RETE ALLA RETE: CALCIO E PADEL, UN LEGAME NATURALE
Il passo è breve, e spesso molto rapido: molti calciatori professionisti non aspettano nemmeno la fine della propria carriera agonistica per cominciarne una nuova, meno impegnativa ma altrettanto coinvolgente: quella di giocatori di padel. Nonostante le apparenze, i due sport hanno molti più punti in comune che divergenze, e forse proprio per questo così tanti volti noti del mondo del calcio – come Zambrotta, Albertini e Di Biagio – prendono in mano la racchetta poco dopo aver appeso gli scarpini al chiodo.
CAMPI DIVERSI, MOVIMENTI SIMILI
Il calcio e il padel condividono una serie di aspetti non indifferenti per chi pratica sport ad alti livelli. Ad esempio, sono entrambi molto tattici: è necessario avere una chiara strategia di gioco, pensata con il proprio compagno, da sviluppare in campo adattandola se necessario a quella degli avversari.
È fondamentale l’occupazione dello spazio, anche se nel primo caso si tratta di un campo da cento metri per 65 circa e dall’altro di un venti per dieci. Entrambi i terreni di gioco vanno coperti in modo efficace dai componenti della squadra. Gli 11 calciatori devono disporsi e muoversi in maniera compatta, per non lasciare la possibilità di incunearsi fra le linee di attacco, centrocampo e difesa, mentre i due compagni di racchetta devono badare a non lasciare mai sguarnite porzioni troppo ampie della loro metà campo, per rispondere più facilmente ai colpi degli avversari.
QUESTIONE DI FEELING
In tutti e due gli sport, è necessario un ottimo coordinamento: tutti i movimenti e le giocate individuali devono essere accompagnati da quelli collettivi. Nel calcio i compagni di reparto supportano l’azione, offrono soluzioni al portatore di palla, coprono le posizioni dei compagni lanciati all’attacco. Nel padel, ognuno dei due giocatori confida sul partner per difendere metà del proprio campo e mettere in difficoltà la squadra rivale insistendo sui suoi punti deboli. Una grande intesa è fondamentale, per evitare di andare sullo stesso pallone (o sulla stessa pallina) e di sprecare energie in scatti inutili.
Come capita per le squadre di calcio, anche nelle coppie di padel la forza collettiva non è la semplice somma delle capacità individuali, ma scaturisce da un amalgama complessa, fatta di complementarietà delle rispettive caratteristiche, di adattamento progressivo al gioco del compagno, di affiatamento sviluppato durante allenamenti e partite precedenti. “Giocare a memoria” è quindi un obiettivo naturale sia con gli scarpini ai piedi che con la racchetta in mano: quando si conoscono alla perfezione i movimenti di chi sta dalla nostra parte, crescono le possibilità di portare a casa la partita.
CONCENTRAZIONE E ANTICIPO
Tanti ex calciatori convertiti al padel fanno notare anche quanto sia importante mantenere un elevato livello di concentrazione durante tutta una partita, ripetendo il mantra degli allenatori di calcio, per cui si può staccare la spina soltanto dopo il fischio finale dell’arbitro.
I ritmi del padel sono serrati e “rimanere dentro la partita” è necessario per comprenderne lo sviluppo e le dinamiche, individuare i punti deboli dell’avversario, valutare le proprie mancanze, capire quando è il momento di accelerare e quando invece è più prudente limitarsi a parare i colpi.
Chi ha giocato a calcio, poi, sa quanto sia importante l’anticipo. Non solo per intercettare il pallone ma per capire lo sviluppo del gioco e far sì che la palla corra più delle gambe. È una questione di talento, che però si può affinare con ore di gioco. Il padel non è così diverso. Così come l’attaccante di razza “fiuta” la direzione del cross che piove in area, così i padelisti migliori si muovono prevedendo la direzione della pallina e le intenzioni dell’avversario.
COMPETITIVITÀ E FAIR PLAY
Un altro aspetto da non sottovalutare riguarda la competitività di uno sport, il padel, che fornisce gli stimoli giusti a chi ha passato una vita a correre dietro un pallone. I match giocati sul filo del rasoio, i colpi imprevedibili, le rimonte, le vittorie all’ultimo punto sono ingredienti fondamentali in molti incontri e forniscono materiale utile per le analisi, le congratulazioni, le recriminazioni e persino gli sfottò del post-partita. Una sfida a padel non avrò certo la stessa pressione di una partita di di Champions, ma – ammettono gli ex campioni azzurri – scatena sicuramente quelle “vibrazioni” che solo lo sport agonistico riesce a dare, prima e durante l’incontro.
A pensarci bene, per una sovrapposizione completa tra i due sport manca solo il ruolo dell’arbitro, visto che nella maggior parte dei casi le partite di padel sono gestite dai giocatori stessi, che con grande sportività segnalano le infrazioni proprie e altrui. Una dinamica difficile da replicare in una partita di calcio professionistica, ma abituale nelle sfide amatoriali o giovanili. L’assenza dell’arbitro, però, non è un problema. L’agonismo non è in contrasto con il fair play.
Cosa sta andando storto nell’utilizzo del VAR in Italia? Sì, perché qualcosa sta andando storto. Inutile girarci intorno, mentre le massime istituzioni del nostro calcio continuano a prodigarsi in spiegazioni sempre più accurate delle procedure di valutazione degli episodi dubbi, nonché delle percentuali di errori arbitrali evitati grazie al VAR, le polemiche tra tifosi e società sembrano addirittura aumentare. Il sistema calcio pare essere entrato anzi in una sorta di stato dissociativo, per usare le categorie della psicologia, tale per cui più il VAR “funziona”, ovvero il suo protocollo viene collaudato, più le sue decisioni vengono considerate ingiuste. Un non senso, apparentemente, che però come un lapsus freudiano potrebbe rispondere in realtà a logiche più profonde, da ricercare magari mettendo in discussione alcuni assunti dati al momento per scontati.
Secondo alcuni autorevoli esponenti della classe arbitrale, ad esempio, l’obiettivo dell’introduzione del VAR non sarebbe mai stato la riduzione delle polemiche tra tifosi o società. Come detto infatti dall’ex designatore Rizzoli nel 2019: “Il Var è un aiuto, uno strumento importante e utile. Nessuno ha paura di utilizzarlo o intenzione di farne a meno. Però, non eliminerà mai le polemiche: ognuno la vede a modo proprio”. Una posizione in netta antitesi rispetto a quella di varisti più decisi come Marcello Nicchi, che nel dicembre 2017 da presidente dell’AIA si compiaceva di un mondo del calcio finalmente pacificato sotto l’egida della videoassistenza: “Il Var ha portato serenità e azzerato le polemiche, e chi vuole parlare oggi di calcio si può sbizzarrire senza parlare futilmente di un calcio d’angolo o di un rigore”.
Al di là dell’effettiva veridicità delle dichiarazioni di Nicchi, il VAR viene introdotto proprio per avere un calcio più “giusto”, come dichiarato più volte dal presidente FIFA Gianni Infantino, e arbitri “più protetti”. Più che nel campo della tecnica siamo in quello della morale. Per questo la posizione rizzoliana rischia di essere ingenua: il VAR è uno strumento chiamato a migliorare un processo, certo, ma un processo fortemente innestato nella morale. La figura dell’arbitro nasce proprio per dirimere le polemiche tra le due squadre che si contendono la vittoria, e viene introdotta precisamente il 2 giugno 1891 in una riunione dell'International Board, su proposta della Football Association inglese, mentre prima di allora ci si era affidati al fai-da-te con risultati modesti.
Oltretutto ci sono passaggi del protocollo VAR che fanno direttamente riferimento alla “credibilità” dello strumento, e quindi alla necessità di non offrire il fianco a proteste di ogni sorta. Si pensi ad esempio alla scelta di usufruire, per la videoassistenza, solo delle stesse immagini che vengono trasmesse dai broadcast televisivi: come si legge nel manuale prodotto da FIFA e IFAB nel 2017, “l'integrità del sistema VAR sarebbe compromessa se i broadcast potessero mostrare filmati non disponibili al VAR/arbitro che contraddicono la decisione del VAR/arbitro”. Ciò nonostante il VAR, nel corso di quest’ultima stagione, pare aver definitivamente perduto quell’aura di infallibilità che stimolava le certezze di Nicchi.
“Ci sono squadre convinte di star lottando contro il Sistema”
Se prima gli errori della videoassistenza scandivano gli anni - dal rigore “in fuorigioco” concesso al Genoa contro la Juve nel 2017, al gol di mano di Cutrone in Milan-Lazio del 2018, fino al celebre non-fallo di mano di D’ambrosio in Fiorentina-Inter del 2019 e a Milan-Roma dell’ottobre 2020, in cui Giacomelli riuscì ad inventarsi un rigore per parte - in questa stagione abbiamo invece assistito ad un incremento delle sviste costante e inarrestabile.
Tra gli episodi più eclatanti, in ordine sparso, il rigore non concesso in Torino-Inter dopo il contatto Belotti-Ranocchia, il rigore concesso in Venezia-Bologna per fallo inesistente di Medel su Aramu, il bel gol in rovesciata annullato a Di Francesco in Empoli-Fiorentina per un impercettibile tocco di Pinamonti su Terracciano (episodio che farà sbottare di fronte alle telecamere il solitamente irreprensibile Andreazzoli: “Che l’arbitro cambi mestiere!”), il clamoroso errore in Milan-Spezia commesso dall’arbitro Serra, così “sereno”, per citare Nicchi, che è scoppiato a piangere in campo dopo essersi reso conto di aver tolto a Messias un gol buonissimo (qualora avesse applicato la regola del vantaggio). Un Serra tanto “protetto”, per dirla invece con Infantino, che da quel 17 gennaio non ha più arbitrato in Serie A se non come Assistente VAR.
E poi ovviamente il surreale gol in fuorigioco di Acerbi in Spezia-Lazio, l’errore simbolo della stagione della nostra classe arbitrale: la videoassistenza dalla sala di Lissone traccia la sua linea e convalida, ma traccia la linea sbagliata, non accorgendosi che il difensore laziale è ben oltre il portiere spezzino e quindi resta un solo uomo a difendere la porta (l’episodio farà dire a Mourinho che in fondo il calcio è rimasto quello di vent’anni fa: si può sempre segnare in fuorigioco). Per dire del clima che questi ultimi due errori hanno contribuito a creare, si pensi solo al ricorso del Codacons, che ha chiesto ufficialmente di rigiocare entrambe le partite.
Per non parlare delle ultimissime giornate: dell’intemerata di Mourinho contro Banti, colpevole di aver concesso alla Fiorentina un rigore a dir poco generoso per lievissimo tocco di Karsdorp su Nico Gonzalez (prima giudicato non falloso, e poi segnalato “illegalmente” da Guida al VAR), del gol ingiustamente convalidato a Leao contro l’Atalanta nella penultima giornata, o di episodi meno decisivi ma comunque inspiegabili, come la ripetizione del rigore di Insigne contro il Genoa, sempre nella penultima giornata, sempre su segnalazione del VAR, quando nessun genoano aveva invaso l’area di rigore.
Questa serie interminabile di errori ha intossicato il dibattito sportivo come forse non accadeva dai tempi delle intercettazioni calciopoliane, tanto che anche un indefesso sostenitore del videoarbitraggio come il giornalista Giovanni Capuano ha dovuto ammettere in un editoriale su Panorama che “ci sono squadre convinte di star lottando contro il Sistema con la S maiuscola”. Nello stesso articolo ha però anche tessuto le lodi del VAR, che a suo avviso “non è morto, con buona pace di chi vorrebbe metterselo alle spalle”. Perché se gli errori sono evidenti, è altrettanto evidente che si è trattato di “errori umani, non della tecnologia e nemmeno del protocollo”. Ha addossato quindi le responsabilità della “tossicità del dibattito” all’assenza di una cultura sportiva in Italia, dove “già l'errore di campo era mal sopportato, e quello davanti a uno schermo è diventato l'appiglio per gridare al complotto e allo scandalo”.
La posizione di Capuano può essere sotto molti aspetti condivisibile, è ben noto infatti il legame inscindibile tra cultura del sospetto e tifo nel nostro Paese, e però sembra stonare con la profondità del suo ragionamento la controargomentazione che adduce a favore del VAR: “gli interventi di correzione andati a buon fine sono molti di più”. Una considerazione che tenta ancora una volta, come nel caso di Rizzoli, di ricondurre la bontà del sistema VAR a mere questioni percentuali. Mentre, se si approfondissero meglio alcune storture sollevate nello stesso articolo, si potrebbe provare ad affrontare una discussione seria su cosa sia esattamente il VAR, senza escludere a priori la possibilità che il videoarbitraggio stesso possa avere degli aspetti problematici non riconducibili al rispetto dei protocolli.
Quella strana somiglianza con la “moviola in campo”
Come detto in precedenza, infatti, la tecnica non è mai neutrale. Tutt’al più svolge in maniera neutrale un compito profondamente innestato nella morale. E in questo senso la morale in Italia, il sentimento che cresce negli anni, si sviluppa fin dai tempi dei “processi del lunedì”. Ma sì, inutile girarci intorno, inutile l’utilizzo dell’inglese per nascondere la somiglianza: il Video Assistant Referee per noi italiani sarà sempre e solo la “moviola in campo” invocata per più di un decennio da Aldo Biscardi nei suoi vari “processi” televisivi! Sono stati in molti a riconoscere la paternità del nuovo strumento arbitrale al compianto giornalista molisano (che ci lasciava proprio nel 2017, nell’anno della “rivoluzione”), nonostante Pierluigi Collina si affrettasse già nel 2016 a dire che si trattava di “una cosa diversa”.
Sarà, ma non è che qualcuno sia ancora riuscito a spiegare chiaramente la differenza. Ciò che è certo è che il buon Biscardi non era mica interessato a pacificare il mondo sportivo come Nicchi, anzi, tutto il contrario! Le sue moviole erano consapevoli provocazioni volte ad aumentare gli ascolti televisivi, generando ancora più polemiche di prima, tant’è che non c’è mai stata un puntata del “processo” che sia finita senza litigi e voci accavallate, insulti e insinuazioni. E più o meno il risultato del VAR, nell’obiettivo di una presunta (e impossibile) oggettività, è stato lo stesso: non ci sono mai state tante polemiche come quest’anno dai tempi di calciopoli. E di quella infausta stagione sono tornate in auge anche le teorie del complotto, sbandierate di fronte alle telecamere perfino dagli addetti ai lavori.
Pensiamo alle dichiarazioni di allenatori come Mourinho e Gasperini, che hanno ipotizzato macchinazioni contro le loro squadre ordite non si sa bene da chi e per quale motivo. Viene allora da chiedersi se non sia proprio il meccanismo di funzionamento del VAR a esacerbare gli animi, rendendo più difficile sopportare i torti subiti. Portando l’arbitro al video, infatti, si è imposto per la prima volta nella storia del calcio un principio per nulla scontato e fino a poco tempo fa inammissibile: che le immagini dei replay siano più “vere” della percezione dal vivo in campo. Un principio che sta gradualmente trasformando l’intero Paese in una sorta di processo del lunedì perenne.
Sui social impazzano le sfide a colpi di fotogrammi, che a seconda dell’istante immortalato e dell’illuminazione riescono sempre (guarda caso) a portare la ragione dalla parte di chi li condivide. Addirittura su questioni teoricamente “oggettive” come i fuorigioco si alternano di settimana in settimana differenti valutazioni, tutte ovviamente contrastanti. Quindi c’è tutta la questione della comunicazione tra arbitro e sala VAR nel corso della partita, o meglio, delle sue tracce audio destinate a restare nei misteriosi archivi dell’AIA nonché a imporsi come nuovo feticcio per i polemisti di tutta Italia.
Una deriva che sta portando al contrario all’implementazione di un “processo di trasparenza” spinto all’estremo, che renderà a breve possibile la trasmissione in diretta TV delle comunicazioni tra arbitri nel corso delle partite. E non è tutto. Si vocifera addirittura di un prossimo canale televisivo tematico dell’AIA, in cui tutto il giorno si parlerà di episodi dubbi e VAR, errori e spiegazioni, protocolli, procedure… Nel fine di giungere ad un calcio oggettivo, un mezzo per generare ancora più confusione e quindi polemiche.
Per non finire tutti in tribunale
Il direttore del Foglio Claudio Cerasa è convinto che questo perverso desiderio di “trasparenza a tutti i costi” ricalchi un certo giustizialismo manettaro passato dalla politica al calcio, tanto che nel suo podcast Come il calcio spiega il mondo ha definito il VAR “nuovo populismo calcistico”. Trattasi di un “tentativo riuscitissimo”, secondo Cerasa, “di commissariare di fatto l’arbitro, mettendolo sotto schiaffo di uno strumento imposto dalla democrazia diretta del pubblico”: “Un Paese come l’Italia, schiavo per anni della cultura anti-casta, non poteva che essere all’avanguardia nello sperimentare un sistema come il VAR”. Un serio pericolo per il nostro Paese, quindi, poiché “ha l’effetto di aggredire un principio non negoziabile in una democrazia: rispettare chi fa rispettare le regole, accettando anche decisioni che si considerano ingiuste”.
Senza volare troppo alto, e lasciando quindi perdere la questione democratica, ci domandiamo più banalmente a cosa stia portando tutta questa “fame di verità” nel sistema calcio: a un ambiente più rancoroso, innanzitutto, a un calcio fotogrammistico a immagine e somiglianza dei processi di Biscardi, con gli errori arbitrali più evidenti che assumono le sembianze di spin-off netflixiani, vere e proprie saghe nella saga (a partire dal celebre Orsato gate, quello portato avanti da Le Iene in seguito a quella famosa mancata espulsione di Pjanic in Inter-Juve del 2018).
Basti guardare a cosa è successo nell'ultimo periodo all’arbitro Pairetto, nuovamente al centro delle polemiche dopo aver convalidato il gol in fuorigioco di Acerbi in Spezia-Lazio del 30 aprile scorso. Succede che durante la conferenza di fine anno dell’AIA vengano desecretati, manco fossero “x-files”, gli audio di quella partita maledetta, e che da questi audio risulti che dalla sala VAR di Lissone in realtà nessuno aveva dato l’ok all’arbitro per far riprendere il gioco, ma che questi lo avesse comunque captato erroneamente, interpretando un “ok” del tutto casuale pronunciato non si sa bene da chi come l’ok di fine check. Apriti cielo! Le vibes sono le stesse del dialogo De Falco-Schettino, per un semplice errore arbitrale che senza il VAR sarebbe presto stato dimenticato.
Ma sembrano soprattutto le azioni legali intentate dal Codacons per far rigiocare Milan-Spezia e Spezia-Lazio a fornirci l’antipasto peggiore di cosa ci potrebbe riservare il calcio dei prossimi anni: dato che la ricerca dell’oggettività si è infatti trasformata in dogma, al punto che è stato istituito una sorta di tribunale ausiliario che la certifichi - questo è in fondo la sala VAR di Lissone, Svizzera, nella quale gli addetti accedono e poi vengono isolati dal mondo esterno come in un’aula bunker - non è impensabile ipotizzare che presto si arriverà realmente a dover rigiocare alcune partite.
Vada per il Codacons, le cui rimostranze in questo Paese non sembrano essere prese molto in considerazione, ma quando si arriverà alle aule parlamentari (come è già accaduto in epoca pre-VAR per episodi anche meno gravi di quello di Acerbi), come andrà a finire? Immaginiamo un caso come quello di Pairetto sbarcare in un’aula parlamentare o peggio in un’aula del tribunale sportivo: quanti giudici saranno disposti a riconoscere la sua buona fede? Le giacchette nere dovranno dotarsi preventivamente di avvocati per praticare la professione? Nasceranno specializzazioni in “diritto del VAR” per formare legali aggiornati sul protocollo?
Insomma, al di là delle provocazioni, dopo cinque anni di implementazione i tempi sembrano maturi per una reale riflessione sulla natura paradossale di uno strumento nato per fare giustizia, ma che in realtà sta solo pompando a dismisura i sospetti e le illazioni, nella ricerca di un'oggettività impossibile. Una riflessione necessaria per cercare di migliorarlo o, se non è possibile, di ripensarlo, riportando così le lancette dell’orologio a cinque anni fa. In fin dei conti, qualcuno lo ricorderà, si giocava a calcio lo stesso.
Aunque han pasado tres meses desde que entró en vigencia el Impuesto a las Grandes Transacciones Financieras (IGTF) aplicado a pagos en dólares en efectivo buscando incentivar el uso del bolívar, esta medida poco ha contribuido para que la moneda local recupere su valor y se produzca la “desdolarización” de la economía, que pretende el Gobierno.
Economistas explican que el 70% de las transacciones en Venezuela siguen siendo en dólares o divisas extranjeras como peso colombiano, euros, real brasileño y hasta oro usado en el sur del país.
Naudy Pereira, economista y exdecano de la Facultad de Economía de la UCLA, indicó que países como Bolivia que salió de la hiperinflación hace 35 años, o Perú que salió hace 32 años, sus gobiernos aplicaron programas económicos acertados, conservan aún buena parte de su economía dolarizada. Sostiene que en naciones donde la subida de los precios de bienes y servicios son prolongadas por años, se da lo que se conoce en economía como “Paradoja de la Histéresis”; es decir, la gente pierde la confianza en su signo monetario local.
“El principal problema del país es el debilitamiento del bolívar que ya perdió su función como dinero. Es muy poco utilizado como medio de cambio, las personas prefieren pagar con dólares en los comercios, no es utilizado como unidad de cuenta porque los precios en el mercado están fijados en dólares, y no es usado como depósito de valor porque se devalúa muy rápido, las personas prefieren ahorrar en una moneda dura como divisas. En Venezuela, el gobierno de Maduro en ocho años ha aplicado políticas económicas incoherentes que han hecho que el bolívar cada día valga menos, provocando pobreza”, exclamó.
Dilio Hernández, economista tachirense, indicó que la confianza en el bolívar no se puede dar por decretos o imponiéndose impuestos para penalizar el uso del dólar. “La moneda local recupera su valor en la medida que se apliquen políticas públicas que incentiven la producción nacional, que generen empleos e insumos. La gente en este país cree que cualquier política que desarrolla el Gobierno no contribuye a resolver sus principales problemas afectando su calidad de vida. Creen que sólo son medidas paliativas”, explicó.
En Venezuela se ha dado una dolarización de facto desde 2018. Según el economista, Luis Zambrano Sequín, del Instituto de Investigaciones Económicas y Sociales de la UCAB, una economía está dolarizada “cuando la relación de los depósitos bancarios denominados en divisas respecto al total de depósitos excede el 40% en un país”.
De acuerdo con el portal web Economía Hoy, el 42% de las captaciones bancarias están en dólares en la actualidad. “Si se suman las cuentas del Convenio 20, el total de dólares en la banca venezolana asciende a 1.310 millones de dólares”.
Los bancos que resguardan mayor cantidad de dólares son: Banco Nacional de Crédito (BNC) con 213,6 millones de dólares, Mercantil con 119 millones de dólares y Bancamiga con 117,7 millones de dólares, según este portal web de información financiera.
A raíz de la puesta en marcha del IGTF, los dólares en las cuentas bancarias han tenido un descenso. Economía Hoy, asegura que en los últimos tres meses fueron retirados de la banca nacional 11.4 millones de dólares en abril, esto representa una caída de 1,5% en comparación con el mes de abril. Buena parte de esto se debe al IGTF, durante los primeros meses del decreto los comercios del país registraron un aumento de los pagos en bolívares, porque las personas buscaban no pagar el encarecimiento de 3% que implica este impuesto para los pagos en dólares en efectivo.
También disparó la inflación en mayo. De acuerdo con cifras del Observatorio Venezolano de Finanzas (OVF), la tasa de inflación mensual de mayo alcanzó 10,1%, mientras que el mes previo fue de 3,6%.
Asdrúbal Oliveros, director de Ecoanalítica, declaró a Runrunes que en los primeros 5 meses de este año tanto por las causas coyunturales como estructurales, los precios en dólares han aumentado 22%, pero considera que el incremento tenderá a moderarse porque de lo contrario se frena la demanda.
$4000 millones d reservas quemadas Naudy Pereira, economista, informó que desde el 2021 el Gobierno nacional ha vendido en las mesas de cambio de la banca la cantidad de 4000 millones de dólares de reservas internacionales, con el propósito de mantener el tipo de cambio bajo. Esta medida no contribuye a recuperar el valor del bolívar porque incentiva la adquisición de dólares en el mercado y privilegia las importaciones por encima de la producción nacional.
“En la medida que el BCV queme las reservas internacionales para mantener el tipo de cambio bajo, se produce el fenómeno de la sobrevaluación monetaria, la inflación es más elevada que el precio del dólar en la actualidad. Un dólar debería costar en este momento de 12 a 15 bolívares, pero el Gobierno no permite un precio real porque impactaría en el costo de los alimentos y servicios”, dijo. Apuntó que el valor del bolívar aumentará en la medida que las reservas internacionales se incrementen.
Inquietud en los despachos de abogados debido a la salida de letrados hacia las asesorías jurídicas de las empresas. Se trata de una situación que a micrófono cerrado reconocen socios de bufetes grandes y medianos, que se enfrentan a dificultades para retener el talento, especialmente de los jóvenes. Un fenómeno que tratan de atajar con subidas de sueldo y mejora de ciertas condiciones laborales, como la posibilidad de combinar el trabajo presencial con el remoto entre uno y dos días a la semana, pero que no siempre son suficientes.
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Un TIROTEO en Filadelfia, ESTADOS UNIDOS deja tres muertos. | EL PAÍS
Y es que los abogados mileniales (los nacidos entre la década de 1980 y finales de los años noventa) se diferencian de sus predecesores en que no comparten la visión tradicional de desarrollarse en la misma empresa durante muchos años ni de estar disponibles las 24 horas del día, los siete días de la semana. Buscan algo más que un buen salario, como medidas que les permitan conciliar de forma efectiva vida personal y laboral o desconectar digitalmente, entornos que los motiven y contribuyan a su realización profesional o mayor claridad en los planes de carrera.
Unos intereses que no siempre encuentran respaldo en los bufetes. Así lo explica Ana, una abogada de 29 años que después de trabajar durante cinco en varios despachos especializados en derecho bancario, pleiteando ante los tribunales, en 2021 decidió dar el salto a la asesoría jurídica de un gran grupo dedicado al sector de la construcción. “En la empresa se respetan más los horarios y no se exige una carga de trabajo desproporcionada. En el despacho hacía muchísimas horas extras. Ahora es algo excepcional”, comenta.
Pero no solo el tiempo de trabajo le ha llevado a hacer el tránsito, también la posibilidad de completar su formación y de desarrollar tareas jurídicas diferentes. “Estoy estudiando un máster que me paga la empresa y asisto a clases de inglés que también me costea mi empleador. Mientras los despachos suelen buscar que te especialices en una materia determinada, lo que te impide aprender otras, aquí ves muchas cosas diferentes. Y eso sin tener en cuenta el sueldo, que casi duplica el de antes” (ahora está en unos 40.000 euros brutos anuales).
El caso de Ana entronca con el de Lidia, otra letrada, de 32 años, que el último otoño pasó de la abogacía de los negocios a la asesoría jurídica de una marca de yogures. El cambio vino tras ser madre, hace apenas dos años. “Me iba al despacho a primera hora y volvía a casa muy tarde. Cuando llegaba, el niño solía estar dormido”. Además, casi todos los meses tenía que coger el tren para asistir a juicios o a reuniones en diferentes ciudades, por lo que tampoco lo veía. “Es triste, pero si quieres ascender o mantener una posición sólida en un despacho, actualmente tienes que renunciar a tener familia. Una situación que nos penaliza, sobre todo, a las mujeres, y que explica por qué tan pocas llegan a los altos niveles de la sociatura. El trabajo sigue siendo duro, pero he ganado calidad de vida”, dice.
Nuevo entorno
“Las ganas de alejarse de la presión de la facturación y de la captación de clientes” es uno de los motivos por los que los profesionales cambian el bufete por la empresa, apunta John Rigau, presidente de la Comisión de Abogados de Empresa del Colegio de la Abogacía de Barcelona (ICAB). Rigau, que ocupa el puesto de general counsel de PepsiCo Europa occidental, constata este trasvase, propiciado, en su opinión, por la necesidad de cambiar de ambiente y “por la oportunidad de desarrollar una carrera en un entorno más cercano a un negocio, además de participar en proyectos de equipos multifuncionales”. Vivir el proyecto de principio a fin con todas sus implicaciones, no solo jurídicas, en un ambiente menos encorsetado, resulta un aliciente, asegura.
Un fenómeno que matiza Lola Conde, copresidenta de la sección de Abogados de Empresa del Colegio de la Abogacía de Madrid (ICAM). Si hay cierta transición en el sector, alega, es debido a una mayor incorporación a las compañías desde la salida de los estudios o del posgrado. Mientras que los despachos han perfeccionado sus artes de pesca en la cantera tradicional de las universidades, las empresas han tardado en acercarse a los estudiantes “para contarles que existe una carrera profesional como abogado interno o in house (como se conoce en el sector a los letrados de empresa)”. Pero, luego, “no hay tanta diferencia en el ejercicio”. Los letrados de una firma externa forman “equipo” con los internos, señala Lola, “y deben estar perfectamente alineados”.
Rigau señala que la primera exigencia de los departamentos legales a los abogados externos es que estos tengan conocimiento del negocio y de la cultura de la compañía, "para que puedan entender y dar una visión global más allá de la propia jurisdicción". El segundo requisito sería "que den soluciones pragmáticas y respuestas claras, concisas y creativas". Por último, que ofrezcan "honorarios sostenibles orientados a una relación a largo plazo".
El aliciente salarial no es definitorio. Según la Guía del mercado laboral 2022 de la consultora Hays, los sueldos medios de un abogado júnior en un gran despacho nacional y la asesoría de una multinacional son muy similares. Los letrados con menos experiencia en el bufete cobran 30.000 euros brutos anuales en Barcelona y 32.500 euros en Madrid. En el mismo nivel, un abogado contratado por una gran compañía gana 35.000 euros en la capital y 31.500 en la Ciudad Condal. Fichar por un despacho internacional sí que proporciona unos emolumentos notablemente superiores (42.000 euros en Barcelona y 42.500 en Madrid).
Para Conde, tampoco hay diferencia en cuanto a la exigencia de dedicación entre un bufete y la asesoría legal de una empresa: “No creo que se trabaje menos horas o con menos intensidad”. Lo que sí ha llegado en ambos casos, afirma, es una nueva era de búsqueda de flexibilidad impulsada por la crisis del Covid-19. Eso sí, matiza, “si trabajas en operaciones de M&A [fusiones y adquisiciones] es muy probable que tengas que hacer una dedicación distinta”.
Posición estratégica
Si el profesional opta por integrarse en la asesoría legal de la compañía, debe saber que estos departamentos han ido ganando peso en los últimos años. Así lo expone Teresa Mínguez, quien llegó a Porsche Ibérica en 2013 desde CMS Albiñana & Suárez de Lezo para crear el departamento de asuntos legales y compliance, que dirige desde entonces. Mínguez representa a la ACC (Association of Corporate Counsel) Europa en España, la asociación de abogados in house más grande del mundo. Como explica, “los cambios en los modelos de negocio, la digitalización y las nuevas competencias estratégicas y ejecutivas que se demandan de la función legal hacen que el perfil del abogado in house sea cada vez más equivalente a cualquier otro miembro del comité de dirección”.
La importancia de contar con una dirección jurídica bien posicionada para influir en la estrategia empresarial de la compañía queda corroborada en la Encuesta de directores jurídicos que publica la ACC cada año. “No resulta sorprendente que se solicite a más del 70% de los directores jurídicos que informen sobre las decisiones empresariales”, indica Mínguez.
EL DÍA A DÍA DE LOS ABOGADOS ‘IN HOUSE’
Schweppes. El trabajo en una asesoría jurídica es minucioso y requiere de altas dosis de atención y esmero. Así lo explica Marina Pedraz, abogada in house de Suntory Beverage and Food Spain - Schweppes, SA. Sus funciones consisten, grosso modo, en “la creación y redacción” de los contratos que realiza la popular firma de tónica con clientes y proveedores. También se ocupa de la “protección de datos”, es decir, de dar cumplimiento a los requerimientos del regulador español sobre la información personal que maneja la compañía. Funciones que realiza fundamentalmente en inglés. Aunque cuando estaba estudiando su sueño era vestir la toga, nunca llegó a pleitear ante los tribunales y es una idea que actualmente desecha. “Para dar el salto a un despacho me tendrían que permitir ser la dueña de mi tiempo”, subraya.
Moda. El testimonio de Pedraz lo complementa Antía Boo, una abogada que trabaja en la asesoría jurídica de una importante compañía del sector de la moda. “Entre nuestras tareas se incluyen la elaboración y/o revisión de los contratos, la llevanza de la secretaría de la sociedad o de las sociedades del grupo, el análisis y formalización de operaciones societarias, la defensa de los derechos de propiedad industrial e intelectual o la gestión de los procedimientos judiciales y extrajudiciales”, aunque los asuntos de tribunales se los confían a los bufetes. Su trabajo también exige “conocer a la perfección las carencias, necesidades y objetivos de la empresa”. Y aunque para eso hay que echarle “muchas horas”, a día de hoy tampoco se iría a un bufete, porque “trabajar con equipos diferentes y enfrentarte a retos distintos cada día es muy divertido a la par que estimulante”.