viernes, 6 de septiembre de 2019

Mugabe, il Napoleone anti-Mandela che diceva: solo Dio può licenziarmi


Mugabe, il Napoleone anti-Mandela
che diceva: solo Dio può licenziarmi

Morto a 95 anni come lui, Robert Mugabe ha in comune molto con la parabola di Nelson Mandela. Che ha interpretato alla rovescia, distruggendo il «granaio d’Africa»

Mugabe, il Napoleone anti-Mandela che diceva: solo Dio può licenziarmi
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Diceva: «Lo Zimbabwe è mio». E quel che è peggio è che aveva ragione: per almeno 37 anni Robert Gabriel Mugabe è stato il padre-padrone del suo Paese. Un riverito liberatore dell’Africa coloniale, salito al potere con le elezioni del 1980 (dove vinse a sorpresa 57 seggi su 100 nel nuovo Parlamento) e diventato (molto presto) tiranno. A mandarlo a casa (nella sua residenza con 24 stanze, autisti, maggiordomi e immunità diplomatica assicurata) nel novembre 217 è stato il “suo” esercito e il «suo» braccio destro, quell’Emmerson Mnangagwa detto il Coccodrillo (per la voracità e la capacità di lacrime postume) che si era visto superato nella corsa alla futura leadership dalla moglie dello stesso Mugabe, Grace, che il Vecchio aveva lanciato nella mischia. In realtà anche il familismo amorale del Compagno Bob era un modo per creare nemici per i suoi nemici, e restare lui in sella fino alla fine: «Solo Dio mi può licenziare».
La gente dello Zimbabwe, quelli che a milioni non sono fuggiti all’estero a cercar fortuna, sono un popolo in coda. Per le medicine, per il pane, per l’acqua. Molti si metteranno in coda anche per tributare l’ultimo saluto all’unico leader che li ha governati e visti crescere. Ma pochi perderanno tempo e lacrime sulla sua dipartita. Nella capitale dello Zimbabwe metà dei 4,5 milioni di abitanti quest’estate ha avuto acqua corrente una volta alla settimana. Ci si alza alle tre del mattino per fare la coda al pozzo più vicino. L’inflazione viaggia verso il 200%, i blackout elettrici durano 18 ore, mancano farmaci e carburante. La morbida uscita di scena di Mugabe due anni fa non ha migliorato la vita quotidiana dei 13 milioni di zimbabwesi. Per il presidente Coccodrillo «la finestra di opportunità» davanti alla comunità internazionale e ai cittadini galvanizzati per la fine di un’epoca si è chiusa presto. Lo Zimbabwe di oggi resta ancora quello di Mugabe.
È interessante che la sua figura non abbia patito la sorte riservata a tanti dittatori, che perdendo il potere diventano subito o paria o cadaveri. Il Colonnello è morto in un ospedale di lusso, circondato da persone amiche, a Singapore, dove negli ultimi anni si era recato spesso per curarsi da un male mai ufficialmente identificato. Aveva 95 anni, l’età di Nelson Mandela quando se n’è andato nel 2013. E lo slalom parallelo tra i due grandi vecchi è anche uno specchio dell’Africa. Mugabe era figlio di un carpentiere, nella ex Rhodesia retta dai bianchi. Il padre abbandona la famiglia quando lui ha 10 anni. Studia presso una missione cattolica, e consegue la prima laurea grazie a una borsa di studio a Fort Hare, in Sudafrica, la stessa scuola dove qualche anno prima era passato il giovane Mandela.
Madiba diventerà avvocato, Mugabe va a insegnare in una scuola elementare di quella che allora si chiamava Rhodesia del Nord (l’attuale Zambia) e in Ghana, dove conosce la sua prima moglie (che morirà di tumore quando lui ha già avuto due figli dall’ex dattilografa ribattezzata Gucci Grace). In Ghana conosce anche il socialismo panafricano del primo presidente post-coloniale Kwame Nkrumah. Il maestro Bob torna nella Rhodesia del Sud nel 1960 ed entra subito nel Partito Nazionale Democratico guidato da Joshua Nkomo. La loro alleanza diventerà guerra, poi amicizia, poi ancora guerra. L’opposizione al regime bianco di Ian Smith si frattura per linee etniche, Mugabe con la maggioranza shona, Nkomo con la minoranza Ndebele (18% della popolazione). Gli arresti del 1964 riuniscono le varie componenti: Mugabe resterà in cella per 11 anni, dopo aver definito «cowboys» i bianchi al potere. Durante la prigionia muore il suo primo figlio, e le autorità gli proibiscono di andare al funerale. È quello che accadrà di lì a poco a Nelson Mandela. Dietro le sbarre, i leader destinati a guidare i loro rispettivi Paesi vivono un fervido periodo di studio, riflessione, messa a punto del futuro. Ma le strade che prenderanno gli ex studenti di Fort Hare saranno molto diverse.
Mugabe esce di galera e nel 1975 dal Mozambico guida (a parole: nessuno allora l’ha mai visto con un’arma in mano) un pezzo della rivolta armata che porterà all’indipendenza. Il suo amico-nemico Nkomo fa lo stesso dallo Zambia. Dopo 8 anni e 27 mila morti (in gran parte neri) in un salone di Lancaster House a Londra (capitale dell’ex potenza coloniale) nasce lo Zimbabwe libero. Il compagno Bob firma l’armistizio un po’ titubante, convinto dai Paesi che lo appoggiano (Tanzania e Mozambico). Alle prime elezioni il suo partito otterrà una maggioranza parlamentare inaspettata. Mugabe primo ministro si presenta come il grande conciliatore che poi non sarà. Gli scontri con i rivali di Nkomo faranno almeno 10mila morti tra i civili (e l’attuale Coccodrillo Mnangagwa è tra i giovani coinvolti nella mattanza). Alle urne, la quota riservata ai bianchi dalla Costituzione assegna i 20 seggi al vecchio presidente razzista Ian Smith. Mugabe è furioso e briga per cambiare la Carta, togliere di mezzo l’eredità bianca e accreditarsi come Presidente nel 1988 con una carica costruita su misura per le proprie ambizioni. La favola del maestro-liberatore diventa l’incubo del padre-padrone, proprio mentre nel Paese vicino la stella di Nelson Mandela ruba luce al Compagno Bob sulla ribalta internazionale.
C’è chi ha spiegato l’accelerazione autoritaria di Mugabe con la grande invidia provata per Madiba, che toglie al collega presidente l’aureola di eroe dell’Africa. Mandela ha un’altra forza, un’altra levità. È l’uomo della conciliazione post-apartheid, mentre Mugabe cerca di recuperare le simpatie del suo popolo diventando il persecutore degli agricoltori bianchi dopo il perduto referendum del 2000. Mandela a quel punto aveva già lasciato il potere in Sudafrica, dopo un solo mandato, bacchettando e dileggiando il Compagno Bob («vent’anni di potere possono essere abbastanza»). Per contrastare l’avanzata dell’opposizione interna di Morgan Tsvangirai e del suo Movimento per il Cambiamento Democratico, Mugabe se la prende anche con i 70 mila bianchi rimasti nel Paese (erano 210 mila prima dell’indipendenza) confiscando le loro fattorie. Se prima esisteva un problema di equità (i bianchi, il 2% della popolazione, ancora possedevano oltre la metà delle terre coltivabili), dopo gli espropri violenti c’è il problema della fame.
Il Paese che veniva chiamato «il granaio dell’Africa» cade in una depressione economica da cui non si è più ripreso. Gli espropri non sono l’unico fattore. Un sistema costruito per arricchire la cerchia del potere e i suoi sudditi non dà lavoro e speranza a milioni di giovani che il maestro Bob ha fatto studiare facendosi vanto di un sistema scolastico che forse primo nel continente ha vinto l’analfabetismo di massa. In un Paese dove l’inflazione arriva a 2,5 milioni per cento, anche un titolo di studio vale poco. La repressione dei partiti di opposizione tra il 2008 e il 2009 vede Mugabe al comando e il Coccodrillo in cabina di regia. La coabitazione forzata con l’Mdc di Tsvangirai (morto quest’anno di tumore) è una delusione per tutti. Nel 2013 Mugabe non ha bisogno di rubare troppo alle urne per assicurarsi il settimo mandato. Lo Zimbabwe resta in apnea. Il Napoleone d’Africa, l’Anti-Mandela, verrà gentilmente detronizzato dai suoi, pochi anni dopo, affinché niente cambi veramente. A guardare quanto sta avvenendo più a sud, oltre il fiume Limpopo, nell’ex terra dell’apartheid con la disoccupazione alle stelle e la xenofobia galoppante, anche Nelson Mandela non sarebbe soddisfatto. The long walk to freedom, il lungo cammino verso la libertà, anche in Africa è assai più lungo del previsto.

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